Green day, 21st century break Down
L'ultimo di una lunga serie di successi
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Era il 1994, quello stesso anno moriva Kurt Cobain. Il grunge aveva dominato la scena musicale di quegli ultimi anni e ancora impazzavano camicie di flanella a quadri, jeans strappati e converse.
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Ma quell’anno esce anche Dookie, primo album dei Green Day e un video spopola sulle tv musicali: è Basket Case, il singolo di questi tre ragazzini americani. Si, perché Billie Joe Armstrong, Trè Cool e Mike Dirnt sono tre ragazzini in bermuda e magliette a righe che sembrano giocare a fare gli arrabbiati. Ecco: sembrano. In realtà i Green Day, da quel momento in poi, inaugurano l’era di un nuovo punk che non è più quello dei Clash, Sex Pistols o di band più hardcore come i Black Fag.
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Quello che viene dopo sono 20 anni di successi: Grammy Awards e persino un musical ( l’anno scorso è stato portato a Brodway il loro album “American Idiot”, cosa alquanto inaudita per una band come questa).
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Anche i Green Day crescono, bisogna dirlo. Se nei primi lavori viene fuori tutta la loro rabbia adolescenziale, oggi il trio e più maturo e ballate come “Last night on Earth” o “21 guns” non credo siano segno di voto alla commercializzazione ma sintomo di riflessione, di una rabbia che si fonde alla malinconia, al racconto più problematico.
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Nonostante il singolo “Last American Girl” possa sembrare una buona colonna sonora da film targato USA è sempre sotteso un motivo inquietante sotto la parodia: lo specchio di un popolo con molte difficoltà e di un paese alla deriva.
Un punk politico quello dei Green Day, coraggioso e difficile. Ma è proprio questo che li rende una band diversa; giocare a fare gli anarchici nichilisti è la via più semplice; gridare idioti agli americani, prendersela con Bush e la propria terra è un rischio. I Green Day ancora hanno il coraggio di affrontarlo e dopo venti anni sono tuttora in prima linea.
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